18 ottobre 2010

Nella fede di quei minatori rivedo mio padre


Conosco gli uomini della miniera. Per una volta il mondo si è accorto di loro, laggiù in Cile, e subito la tv ne s’è impossessata: “ma io sono e voglio restare un minatore. Non trasformateci in star”, ha detto sanamente Mario Sepulveda, uno dei primi a riemergere dalle viscere della terra.
Mario ha anche urlato: “Questi incidenti non devono più succedere!”. Finalmente un uomo autentico.
Io li conosco perché sono nato in una famiglia di minatori, ho imparato dalla loro forza (anche nel dramma), dalla loro fede cristiana, dalla loro nobiltà. Conosco quell’allegria di naufraghi, di compagni che si dividono il pane, il sudore e il poco companatico.
Dentro la miniera cilena, fra i sepolti vivi, e sopra la miniera, fra i familiari, all’accampamento Esperança, si sono viste per settimane immagini della Madonna (con una statuetta di padre Pio) e bandiere del Cile, perché tutto quel Paese ha pregato e tutto quel Paese sente che gli uomini della miniera sono l’orgoglio della nazione, la sua dignità e la sua forza.
Sono cresciuto sulle ginocchia di uno di questi uomini, mio padre, ed è stato lui il mio orgoglio, la mia scuola di vita, la mia vera università, il mio “master a Oxford”.
Non mi ha insegnato l’inglese, ma mi ha insegnato la dignità, l’amore per la pittura del Trecento e per la musica, la fede cattolica e la passione per la libertà. Ho imparato da lui a non sopportare l’ingiustizia, l’ozio di chi ingrassa vizioso sul dolore di altri esseri umani.
E’ grazie a lui che non portai il cervello all’ammasso del conformismo rosso, negli anni del liceo, e non mi sono rincoglionito di chiacchiere o di droga. Neanche me lo potevo permettere: non avevo una lira in tasca e dovevo studiare (erano i figli di papà che potevano permettersi il lusso di fare i rivoluzionari, di non studiare o di sperperare soldi nella droga).
Grazie a mio padre non mi sono imborghesito nell’anima, perché so cosa vale nella vita (e non sono i soldi) e so che essere se stessi è il tesoro vero.
Qualcosa della rudezza “cafona” degli uomini della miniera, per fortuna, mi resta addosso e – trovandomi a lavorare nel mondo finto degli intellettuali, delle televisioni, delle curie, dei salotti e dei moralisti farisei – c’è sempre un padre e un nonno minatore nel mio sangue che si ribella al conformismo, all’ingiustizia, all’ipocrisia e grida sbrigativamente: “ma andate a farvi fottere!”.
Quei volti sporchi di terra che vediamo nelle immagini dal Cile, quella loro nudità, sottoterra, dove si soffoca di caldo col 90 per cento di umidità, li conosco da quando ero piccolo. E anche la loro malinconia.
Mio padre me li raccontava con la sua faccia bella e scarna, con le sue poche parole, li rappresentava nei suoi quadri e li cantava come dei personaggi di Omero nella personale epica delle sue poesie che oggi mi tornano in mente – guarda un po’ – insieme ai versi di Neruda.
Mia madre per anni e anni è stata una delle ragazze che non sapevano se l’amore della sua vita, quel giorno, sarebbe stato inghiottito dalle profonde gallerie della miniera.
Mia madre è stata una delle donne che si trovava di colpo il cuore in gola quando per il paese correva la voce: “c’è stato un incidente alla miniera!”.
A mia madre è crollato il mondo addosso quella notte del febbraio 1953 in cui seppe che lui aveva avuto un incidente e che solo grazie al gelo della notte invernale non era morto dissanguato perché il sangue si era ghiacciato (ma il “mostro” aveva comunque mozzato una sua mano). Dovevano sposarsi di lì a poco.
Tutto il paese dove sono nato e cresciuto ricorda i giorni in cui la miniera inghiottì due compagni di mio padre. La stessa angoscia della povera gente del Cile. Perché la povera gente cristiana, a tutte le latitudini, si assomiglia.
Con quale tenerezza mia madre ricorda la gioia e l’orgoglio di mio padre, quando poté comprarsi una moto Iso e non dovette più andare, per cinque o sei chilometri, alla miniera a piedi o in bicicletta, di giorno e di notte, in tutte le stagioni.
Nella miniera di San José il più giovane dei 33 minatori è Jimmy Sanchez 19 anni. E’ uscito da quel tunnel sprizzando gioia. Guardando la sua faccia, bella di giovinezza, è impossibile non commuoversi. E’ ancora un ragazzo.
Ho pensato quanto avrei desiderato vedere mio padre quando, a 14 anni, ha cominciato a lavorare in miniera: lui era un bambino. Aveva l’età che adesso ha mio figlio (quanto vorrei fargli ereditare la sua dignità).
Mio nonno Adriano – quando arrivò mio padre a lavorare – era già in miniera da 10 anni. Ci sono rimasti tutti e due tanto tempo. Entrambi ne hanno avuto i polmoni compromessi.
Anche i minatori cileni, che oggi festeggiano – perché stavolta l’hanno scampata – con le loro mogli e i loro figli (ce n’è uno che ha due donne ad aspettarlo e sarà un problema dare spiegazioni) sanno che ogni salvataggio è sempre precario ed effimero.
Laggiù i corpi si impastano col carbone e il fango e la terra li considera ormai suoi. A volte se li riprende senza neanche aspettare che crepino, con un’esplosione di grisù. Ma altre volte li richiama a distanza di anni. Una chiamata che gronda ingiustizia.
I polmoni di mio padre a 80 anni erano pieni di quella polvere di carbone che aveva respirato per decenni: aveva ormai la miniera nelle carni, nel sangue, nelle ossa, nelle fibre. Il suo killer ce l’aveva addosso da una vita.
La miniera è una matrigna che non perdona: ti ha nutrito con qualche povero tozzo di pane, ma prima o poi reclama il suo diritto di ammazzarti. Anche a distanza di tempo.
Così mio padre se lo è portato via il 21 maggio del 2007. Non si può morire a maggio, mi dico sempre. Ma la miniera non conosce stagioni, non ha riguardi nemmeno per la primavera: laggiù sotto è sempre lo stesso bestiale inverno di fuoco.
Così la miniera ha ammazzato mio padre dopo anni. Ma forse anche gli ha risparmiato lo strazio di vivere il dramma di mia figlia Caterina.
Questo s’impara dagli uomini della miniera, che la vita è una lotta e non una vacanza alle Maldive, che è inevitabile sporcarsi di terra e di carbone (cosa che non capita alla settimana bianca, né all’Accademia), che la vita è fragile ed effimera, che un Altro ce l’ha data e lui ha pietà di noi perché è Padre.
Uno dei minatori ha detto: “sono stato fra il diavolo e Dio, ma alla fine è Dio che mi ha afferrato”. Conta questo: essere afferrati da Dio. E conta la dignità con cui si vive. Dagli uomini della miniera si capisce che è bello avere Dio e avere accanto dei fratelli con cui condividere il pane e l’avventura dell’esistenza.

(di Antonio Socci- tratto da "Libero" del 14/10/2010)

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